sabato 24 gennaio 2015

MIrella e Gianni Agnelli

MIrella da qualche giorno se ne è andata via.
Ricordo le nostre assemblee, i nostri sogni le nostre disillusioni.
Ricordo la lettera che scrisse quando è morto Gianni Agnelli. La voglio postare qui.

A proposito del funerale di Gianni Agnelli mancava, è stato dimenticato da tutti, un partecipante: la dignità della classe lavoratrice.

E' stata la dignità che ha sostenuto e dato ad un’intera città la forza di andare avanti, giorno dopo giorno, anno dopo anno, per condurre una vita durissima, con la consapevolezza che non si poteva fare altrimenti, che era quello il ruolo affidato alla città: compiere il proprio dovere fino in fondo, a testa alta, lottando per far riconoscere i diritti fondamentali dell'Uomo alla giustizia all'uguaglianza e alla dignità, già, la lotta di classe.

Gli Agnelli si sono arricchiti con la Fiat, non sono stati Padri Comboniani che hanno sfamato una città, non hanno fatto beneficenza, hanno svolto il loro ruolo di industriali, di capitalisti.

Gianni Agnelli non è stato un capitalista illuminato come Adriano Olivetti che si preoccupava della salute fisica e mentale dei suoi dipendenti, altri tempi, certo, tempi passati, ora l'Olivetti non esiste più, il Canavese si è trovato in ginocchio, ora rischia di trovarsi in ginocchio l'intero comprensorio torinese, una tragedia certo, ma non raccontiamoci menzogne, Gianni Agnelli non era il padre buono e amoroso, era la controparte dura e impietosa, come tutte le controparti capitalistiche.
Ho 53 anni e sono un ex torinese, ricordo la mia città-fabbrica, le strade deserte alle 9 di sera anche in centro, lo facevano notare le persone venute da altri luoghi, da altre città, per me torinese era ovvio, al mattino si va in fabbrica, a lavorare, alla sera si va a letto, presto.

La vita notturna? C'era ovviamente, ma nascosta, nei locali, in collina, per pochi intimi, studenti di scuole superiori o universitari, figli della buona borghesia che la mattina dopo non dovevano timbrare il cartellino e pochi altri. Per il resto, per la plebe, o il pubblico come si chiama ora, la città era un grande dormitorio, una grande caserma, che si risvegliava la mattina all'alba, con i primi tram, i primi giornali, l'apertura dei primi bar.

Ricordo mio nonno che tornava a casa alla sera in bicicletta, lo ricordo d'estate, arrivava in bicicletta, smontando di sella da lontano e facendo gli ultimi metri in piedi su un solo pedale, con il "baracchino" di alluminio appeso al manubrio che mia nonna lavava e preparava per la mattina successiva, la minestra in fondo, la verdura e un po’ di carne nel ciotolino di sopra, e lui si lavava, una cena veloce con il giornale radio, una visita alla sezione del partito e poi a letto. "Così presto?". "La fabbrica è lontana, fuori città." "Prendi il tram." Sorriso di mio nonno "Ce ne vorrebbero due e costano, le mie gambe no".

E mio nonno che mi raccontava che durante la ritirata i nazisti distruggevano e incendiavano tutto e gli operai erano nelle fabbriche, con le armi, per difenderle, il loro pane era anche il pane dei padroni, in quantità diverse.

E poi ho incominciato a lavorare io, all'Olivetti, e andavo nelle fabbriche ad insegnare ad usare i macchinari, le prime macchine a controllo numerico.
E sono stata alla RIV, dove si producevano i cuscinetti a sfera, e spiegavo spiegavo e sembrava non mi capissero, e ho chiesto loro se c'erano problemi, cosa potevo fare, erano uomini di 40 anni o forse più ed io una ragazza di 20 anni, ed erano a disagio, si vedeva, e si vergognavano quando mi hanno chiesto di non parlare mentre scrivevo alla lavagna, perché non mi sentivano, ormai erano diventati sordi per il rumore dei cuscinetti in cascata contro le pareti di metallo.

E sono stata alle "Anime" a Mirafiori, era luglio e si soffocava fuori, figuriamoci dentro, al chiuso e sotto terra, si chiamava così perché era l'anticamera dell'inferno, era il luogo dove venivano fatte le colate della fusione dei motori di camion. I miei polmoni scoppiavano e ci sono stata poche ore, e i loro di polmoni?

E una mattina dovevo andare alla Cromodora dove si cromavano i paraurti delle auto, e mi è arrivata una telefonata, non venga signorina, si è sprigionata una nube, è pericoloso, ci sono già molti intossicati, la richiameremo noi quando non ci sarà più pericolo.

E una volta sono andata in un ufficio, fuori Torino, ed è passato l'omino del caffè, un pistolero con un cinturone in cui erano infilati bicchieri di plastica e termos. "Vuole un caffè signorina?" "Ora no grazie, dopo casomai" "Per noi non c'è un dopo, ora o domani mattina, e siamo fortunati perché possiamo prendere un caffè in orario di lavoro e possiamo andare in bagno quando vogliamo senza chiedere permessi come devono fare gli operai, permessi che a volte, a discrezione del capoturno, vengono negati".

E poi ricordo gli addetti alla verniciatura che pisciavano rosso e le prime denunce.

E poi ricordo l'autunno rosso, quando ero in prova e non avevo diritto di sciopero, e mi dicevano cerca di capire, cerca di scegliere bene, cerca di stare dalla parte giusta.

E mi ricordo quando ci siamo tutti schierati contro il terrorismo, e non  è stato facile perché parlavano di resistenza i primi clandestini, e c'era chi la resistenza l'aveva fatta e se la ricordava, la resistenza era ancora un patrimonio dei lavoratori.

E mi ricordo, ero bambina, quando hanno chiesto a mio padre, panettiere, di mettere in vetrina il cartello "Non si vende pane ai meridionali" e mio padre non lo ha messo, e c'era tensione in casa, paura.

E mi ricordo i cartelli "Non si affitta ai meridionali" e mi sembrava cattiveria pura ed era solo paura del diverso, un diverso fatto venire a  Torino in prova e dopo la prova non confermato.

Non ricordo più le cifre ma erano più persone prese in prova per un solo posto quindi le persone non confermate erano tante, e nel frattempo avevano fatto venire a Torino tutta la famiglia, anche allargata, e si ritrovavano senza lavoro, senza soldi, stipati in alloggi diventati ospizi, altro che parquet e porte rovinate e scarichi intasati e affitti non pagati, non avevano neppure un fornello su cui cucinare o un materasso su cui dormire. Erano stati richiamati a Torino da un sogno di lavoro, illusi e abbandonati a se stessi.

No, non è stata beneficenza, è stato lavoro, è stato dolore, è stata lotta dura, durissima.

MIrella


24 gennaio 2003

2 commenti:

  1. Sono grata a Mirella per quel che è stata, per i suoi occhi che hanno saputo vedere, per il suo intelletto che le ha permesso di riconoscere quel che è conveniente e quel che è ingiusto. Erano altri tempi, sì, ma la consapevolezza, il coraggio che questa ragazza aveva nei muscoli, era comunque eccezionale.
    Grazie a te, Cangala, per l'oro che sai conservare.

    RispondiElimina