Ricordo le nostre assemblee, i nostri sogni le nostre disillusioni.
Ricordo la lettera che scrisse quando è morto Gianni Agnelli. La voglio postare qui.
A proposito del funerale di Gianni Agnelli mancava, è
stato dimenticato da tutti, un partecipante: la dignità della classe
lavoratrice.
E' stata la dignità che ha sostenuto e dato ad
un’intera città la forza di andare avanti, giorno dopo giorno, anno dopo anno,
per condurre una vita durissima, con la consapevolezza che non si poteva fare
altrimenti, che era quello il ruolo affidato alla città: compiere il proprio
dovere fino in fondo, a testa alta, lottando per far riconoscere i diritti
fondamentali dell'Uomo alla giustizia all'uguaglianza e alla dignità, già, la
lotta di classe.
Gli Agnelli si sono arricchiti con la Fiat, non sono
stati Padri Comboniani che hanno sfamato una città, non hanno fatto
beneficenza, hanno svolto il loro ruolo di industriali, di capitalisti.
Gianni Agnelli non è stato un capitalista illuminato
come Adriano Olivetti che si preoccupava della salute fisica e mentale dei suoi
dipendenti, altri tempi, certo, tempi passati, ora l'Olivetti non esiste più,
il Canavese si è trovato in ginocchio, ora rischia di trovarsi in ginocchio
l'intero comprensorio torinese, una tragedia certo, ma non raccontiamoci
menzogne, Gianni Agnelli non era il padre buono e amoroso, era la controparte
dura e impietosa, come tutte le controparti capitalistiche.
Ho 53 anni e sono un ex torinese, ricordo la mia
città-fabbrica, le strade deserte alle 9 di sera anche in centro, lo facevano
notare le persone venute da altri luoghi, da altre città, per me torinese era
ovvio, al mattino si va in fabbrica, a lavorare, alla sera si va a letto,
presto.
La vita notturna? C'era ovviamente, ma nascosta, nei
locali, in collina, per pochi intimi, studenti di scuole superiori o
universitari, figli della buona borghesia che la mattina dopo non dovevano
timbrare il cartellino e pochi altri. Per il resto, per la plebe, o il pubblico
come si chiama ora, la città era un grande dormitorio, una grande caserma, che
si risvegliava la mattina all'alba, con i primi tram, i primi giornali,
l'apertura dei primi bar.
Ricordo mio nonno che tornava a casa alla sera in
bicicletta, lo ricordo d'estate, arrivava in bicicletta, smontando di sella da
lontano e facendo gli ultimi metri in piedi su un solo pedale, con il
"baracchino" di alluminio appeso al manubrio che mia nonna lavava e preparava
per la mattina successiva, la minestra in fondo, la verdura e un po’ di carne
nel ciotolino di sopra, e lui si lavava, una cena veloce con il giornale radio,
una visita alla sezione del partito e poi a letto. "Così presto?".
"La fabbrica è lontana, fuori città." "Prendi il tram."
Sorriso di mio nonno "Ce ne vorrebbero due e costano, le mie gambe
no".
E mio nonno che mi raccontava che durante la
ritirata i nazisti distruggevano e incendiavano tutto e gli operai erano nelle
fabbriche, con le armi, per difenderle, il loro pane era anche il pane dei
padroni, in quantità diverse.
E poi ho incominciato a lavorare io, all'Olivetti, e
andavo nelle fabbriche ad insegnare ad usare i macchinari, le prime macchine a
controllo numerico.
E sono stata alla RIV, dove si producevano i
cuscinetti a sfera, e spiegavo spiegavo e sembrava non mi capissero, e ho
chiesto loro se c'erano problemi, cosa potevo fare, erano uomini di 40 anni o
forse più ed io una ragazza di 20 anni, ed erano a disagio, si vedeva, e si
vergognavano quando mi hanno chiesto di non parlare mentre scrivevo alla
lavagna, perché non mi sentivano, ormai erano diventati sordi per il rumore dei
cuscinetti in cascata contro le pareti di metallo.
E sono stata alle "Anime" a Mirafiori, era
luglio e si soffocava fuori, figuriamoci dentro, al chiuso e sotto terra, si
chiamava così perché era l'anticamera dell'inferno, era il luogo dove venivano
fatte le colate della fusione dei motori di camion. I miei polmoni scoppiavano
e ci sono stata poche ore, e i loro di polmoni?
E una mattina dovevo andare alla Cromodora dove si
cromavano i paraurti delle auto, e mi è arrivata una telefonata, non venga
signorina, si è sprigionata una nube, è pericoloso, ci sono già molti
intossicati, la richiameremo noi quando non ci sarà più pericolo.
E una volta sono andata in un ufficio, fuori Torino,
ed è passato l'omino del caffè, un pistolero con un cinturone in cui erano
infilati bicchieri di plastica e termos. "Vuole un caffè signorina?"
"Ora no grazie, dopo casomai" "Per noi non c'è un dopo, ora o
domani mattina, e siamo fortunati perché possiamo prendere un caffè in orario
di lavoro e possiamo andare in bagno quando vogliamo senza chiedere permessi
come devono fare gli operai, permessi che a volte, a discrezione del capoturno,
vengono negati".
E poi ricordo gli addetti alla verniciatura che
pisciavano rosso e le prime denunce.
E poi ricordo l'autunno rosso, quando ero in prova e
non avevo diritto di sciopero, e mi dicevano cerca di capire, cerca di
scegliere bene, cerca di stare dalla parte giusta.
E mi ricordo quando ci siamo tutti schierati contro
il terrorismo, e non è stato facile
perché parlavano di resistenza i primi clandestini, e c'era chi la resistenza
l'aveva fatta e se la ricordava, la resistenza era ancora un patrimonio dei
lavoratori.
E mi ricordo, ero bambina, quando hanno chiesto a
mio padre, panettiere, di mettere in vetrina il cartello "Non si vende
pane ai meridionali" e mio padre non lo ha messo, e c'era tensione in
casa, paura.
E mi ricordo i cartelli "Non si affitta ai
meridionali" e mi sembrava cattiveria pura ed era solo paura del diverso,
un diverso fatto venire a Torino in
prova e dopo la prova non confermato.
Non ricordo più le cifre ma erano più persone prese
in prova per un solo posto quindi le persone non confermate erano tante, e nel
frattempo avevano fatto venire a Torino tutta la famiglia, anche allargata, e
si ritrovavano senza lavoro, senza soldi, stipati in alloggi diventati ospizi,
altro che parquet e porte rovinate e scarichi intasati e affitti non pagati,
non avevano neppure un fornello su cui cucinare o un materasso su cui dormire.
Erano stati richiamati a Torino da un sogno di lavoro, illusi e abbandonati a
se stessi.
No, non è stata beneficenza, è stato lavoro, è stato
dolore, è stata lotta dura, durissima.
24 gennaio 2003
Sono grata a Mirella per quel che è stata, per i suoi occhi che hanno saputo vedere, per il suo intelletto che le ha permesso di riconoscere quel che è conveniente e quel che è ingiusto. Erano altri tempi, sì, ma la consapevolezza, il coraggio che questa ragazza aveva nei muscoli, era comunque eccezionale.
RispondiEliminaGrazie a te, Cangala, per l'oro che sai conservare.
Grazie a te tesoro mio!
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